Nonostante il turismo abbia prodotto, come ricaduta, una drastica contrazione delle superfici vitate, la viticultura rimane a tutt’oggi un aspetto importante dell’identità storica dell’isola d’Ischia. Soprattutto, il momento della vendemmia si è arricchito di un ulteriore significato legato all’attuale economia turistica: il passaggio dai ritmi frenetici dei mesi estivi, al tempo lento dell’autunno e dell’inverno sull’isola. Un vero e proprio “rito di passaggio” dunque, che testimonia però dell’esistenza di una “cultura della vite” che resiste, e anzi, può tornare a essere centrale anche economicamente sotto la spinta del miglioramento delle tecniche colturali.

Forti di una tradizione che già dagli anni ‘60 del secolo scorso vede alcuni vini isolani stabilmente inseriti nei circuiti D.O.C. (Denominazione Origine Controllata), le case vinicole ischitane hanno puntato, in tutti questi anni, innanzitutto a migliorare la qualità della loro produzione, consentendo “a cascata“, anche il miglioramento del vino cosidetto “di casa”, destinato all’autoconsumo domestico.

Passi per la meccanizzazione della torchiatura, l’ausilio di vasche in pvc per la raccolta del mosto e la sostituzione delle vecchie botti di legno con più pratici sylos d’acciaio, sono i progressi ampelografici, gli studi cioè che consentono la caratterizzazione del patrimonio enologico dell’isola, la base scientifica di cui ci si è serviti per il recupero e la valorizzazione dei vitigni realmente autoctoni o, come si dice, a profilo genetico unico. All’oggi i vitigni storici più diffusi sono il Biancolella e il Forastera tra quelli a bacca bianca, il Guarnaccia (Per’ ‘e Palummo) e il Livella tra quelli neri. Questi ultimi, però, con una produzione molto più limitata rispetto ai bianchi.

Certo, anche il raffronto tra le nuove e le vecchie tecniche di produzione è impressionante. Basti guardare a come avveniva un tempo la spremitura dei grappoli per avere un’idea della fatica dell’antico processo di vinificazione. La spremitura veniva effettuata prima a piedi nudi in grandi vasche in lapillo battuto, dette “palmenti“, e poi con l’ausilio di un rudimentale sistema di contrappesi fatto da grandi pali di legno collegati, tramite funi, a un enorme masso di tufo verde a forma di campana, detto “pietratorcia“. Anche le cantine per la conservazione del prodotto erano scavate interamente a mano nella roccia, compresa la realizzazione di quattro aperture nella parte alta della cellaio, dette “ventarole“, per garantire la necessaria aerazione dell’ambiente.

Oggi scienza e tecnologia, dall’uso degli antigrittogamici a base di rame, all’utilizzo di uno strumento fondamentale come il il mostimetro, consentono, a tutti i livelli, una migliore qualità media del prodotto finito.

Resta la difficoltà e per certi versi la dis-economicità sia della manutenzione del vitigno che della raccolta delle uve. In molte parti dell’isola questi processi sono ancora espletati manualmente a causa della difficile orografia del territorio e della limitata estensione dei terreni, figlia, a sua volta, dell’eccessivo frazionamento delle proprietà.

Naturalmente dove sussistono le condizioni l’utilizzo della meccanica di supporto (erpice, fresa, vibrocultore, defogliatrice, cimatrice eccetera) è di prassi comune, insieme a più moderne forme di allevamento della pianta come il Guyot semplice, che progressivamente sta soppiantando l’inveterata abitudine dei contadini ischitani di favorire lo sviluppo in altezza della vite a vantaggio della sola resa quantitativa del prodotto da raccogliere.

Dal punto di vista geomorfologico è la prevalente composizione trachitica dei materiali litoidi e sabbiosi dei terreni ischitani a garantire la grande quantità di potassio che ne spiega la fertilità, anche se il paesaggio della viticoltura ischitana è molto differente a seconda dei versanti. Lungo il versante settentrionale dell’isola, da ovest a est, i terrazzamenti, sostenuti da caratteristiche murature a secco, dette “parracine“, raggiungono pendenze anche del 50-60%, a ulteriore conferma dell’eroicità degli agricoltori ischitani che, soltanto a costo di enormi sacrifici, riuscivano a recuperare a una natura impervia il suolo necessario a un solo filare di vite per terrazza. Nella parte meridionale dell’isola il terreno si presenta invece con declivi più dolci, così che i terrazzamenti riescono a contenere, da questo versante, più filari.

La diversità del paesaggio, dell’ambiente, è il valore aggiunto del viticoltura sull’isola, l’aspetto che conferisce dignità storico-culturale a una civiltà contadina, quella ischitana, senza i cui sacrifici, non potremmo apprezzare a pieno l’etichetta, l’immagine legata alla commercializzazione del vino locale, da anni e con successo, in giro per il mondo.