Strano a dirsi per una località di mare ma, per secoli, l’economia dell’isola d’Ischia è stata prevalentemente agricola, con una minoranza della popolazione dedita invece alla pesca. Una scelta saggia e in fondo obbligata quella degli ischitani che, grazie alla fertilità del suolo vulcanico, ricco di potassio, hanno preferito la terra alle insidie dell’andar per mare. Non che la vita dei campi fosse una vita agiata o immune da pericoli! Anzi, osservando il paesaggio agricolo dell’isola la prima cosa che salta agli occhi è la fatica enorme che è stata fatta per recuperare superficie coltivabile a una natura impervia e dalla morfologia complicata. Una vocazione eroica che ben vale le definizioni ricorrenti di “agricoltura di montagna” o, con riferimento alle maestranze, di “agricoltori alpinisti“.

Due i simboli dell’identità rurale dell’isola d’Ischia: la viticoltura e l’allevamento del coniglio. Tradizioni ancora attuali e, tra l’altro, al centro di diversi progetti tesi alla loro salvaguardia e valorizzazione turistica.

La scelta di allevare il coniglio poi si spiega – molto semplicemente – con la velocità di riproduzione e accrescimento dell’animale, tanto che nel 1500 era già la specie più allevata nei poderi ischitani. Non solo. La presenza di conigli selvatici sull’isola d’Ischia risale nientemeno all’epoca greco-romana, per non dire della secolare consuetudine delle corti aragonesi e borboniche di ripopolare con l’animale il sottobosco dell’isola a garanzia del proprio divertimento venatorio.

Non deve stupire perciò che la vecchia tecnica di allevamento del coniglio in profondi fossi sia mutuata proprio da una profonda conoscenza delle sue abitudini allo stato brado. Abitudini che gli agricoltori ischitani tendevano a preservare intuendo che la conservazione dell’istinto gregario-coloniale del coniglio avrebbe garantito una migliore qualità delle sue carni, al confronto con altre forme di allevamento maggiormente costrittive.

In realtà, i conigli venivano allevati in profonde buche anche per un’altra ragione, strumentale alla necessità di ricavare terra nuova da destinare alla produzione vitivinicola. Le fosse venivano così riadattate all’allevamento dell’animale rivestendone le pareti interne con i caratteristici muri a secco (parracine) in tufo verde locale, fatta eccezione per due cunicoli sul lato cieco della buca dove gli animali potevano scavare assecondando il proprio istinto, senza tuttavia il rischio che potessero trovare in questo modo una via di fuga.

L’alimentazione era esclusivamente naturale e prevedeva la somministrazione giornaliera di graminacee, foglie e steli delle leguminose e residui di potatura del vitigno e degli alberi da frutto. Oggi questa pratica è quasi del tutto scomparsa, soppiantata da forme di allevamento pensate innanzitutto per il commercio e che tuttavia si sono rivelate nel tempo più efficienti anche per la produzione finalizzata all’autoconsumo domestico.

Resta il dato del consumo annuo di questo tipo di carne, che sull’isola d’Ischia si stima sia di 40 kg pro capite (contro una media nazionale di 16 kg) e, resta, soprattutto, il senso di una tradizione che, per quanto rinnovata, spesso si ispira a un giusto compromesso tra nuove tecniche d’allevamento e l’antico modo di alimentazione dell’animale, con prodotti naturali invece dei mangimi industriali.

Va anche detto che c’è più di una persona che lavora per un ritorno all’antica tecnica di allevamento del “coniglio di fosso” sull’isola d’Ischia, adducendo come ragione fondamentale la sua maggiore eco-compatibilità, soprattutto in considerazione del maggiore benessere animale come indice di qualità del prodotto finito. Tanto più – si sostiene – che oggi l’accresciuta attenzione alle norme igienico-sanitarie e, in generale, gli enormi progressi della scienza veterinaria, rendono possibile la sopravvivenza di una tecnica colturale che è sì dispendiosa, ma non presenta più indici elevati di mortalità dell’animale come in passato.