Bisogna partire da un fatto. L’isola di Auden, Capote, Eduard Bargheer, Luchino Visconti, William Walton non esiste più. Il turismo ha profondamente alterato le strade, le piazze, le campagne di cui si innamorarono tanti artisti e letterati subito dopo la II guerra mondiale. Perciò scrivere ora, a distanza di tanti anni, di quegli illustri ospiti ha senso solo se non si prova a far passare il messaggio che l’isola d’Ischia è quella di sessanta anni fa.

Ischia però è ancora un’isola bellissima. Anche per la sua storia, di cui gli artisti sopra citati, e tanti altri invece non menzionati, sono diventati, nel frattempo, ognuno un capitolo importante. Tra questi, Wystan Hugh Auden (1907- 1973) è, senza dubbio, il più importante di tutti.

Inglese naturalizzato statunitense, Auden condusse un’esistenza girovaga che lo portò prima in Spagna, durante la guerra civile tra repubblicani e franchisti, poi negli Stati Uniti, dove arrivò la consacrazione come poeta, e infine in Austria, a Kirchstetten, piccolo paese a pochi chilometri da Vienna, dove morì nel 1973. In mezzo (tra l’America e l’Austria), dieci anni – dal 1948 al 1958 – vissuti prevalentemente sull’isola d’Ischia. Per la precisione a Forio, il più esteso dei sei comuni in cui amministrativamente è divisa l’isola.

A fare che? È lo stesso Auden nella sua poesia di commiato dal sud “Good bye to the Mezzogiorno”, a chiarire il senso della sua lunga permanenza sull’isola più grande del Golfo di Napoli: “la speranza – scriveva il poeta al giro di boa dei 50 anni – di scovare da ciò che non siamo quel che potremo essere in séguito“. Una frase che chiarisce meglio anche la poetica dello scrittore e drammaturgo inglese che, proprio negli anni ischitani, virò decisamente verso la ricerca interiore e l’afflato religioso di cui pure il Sud, Ischia, Forio, fornivano numerose tracce con le tante feste e tradizioni popolari. Nello stesso tempo, Auden ridimensionava il pregiudizio, assai diffuso all’epoca e resistente nel tempo, per cui molti artisti avevano scelto in realtà di stabilirsi al sud inseguendo una maggiore disponibilità sessuale dei giovani maschi. Certo c’era anche questo, ma di più contava il vino, la natura generosa e, c’è chi ha scritto in maniera efficace, “una gioia fisica di esistere” che mancava invece nel “gotico nord” da cui proveniva Auden e al quale pure fa riferimento in apertura di poesia.

A Forio, la vita di Auden aveva un palcoscenico: i tavolini, meglio il tavolino a sinistra dell’ingresso, del Bar Internazionale di Maria Senese. Palcoscenico conteso con “Don Eduardo Bargheer”, altro assiduo frequentatore della locanda e quanto di più distante potesse esserci per temperamento dal poeta inglese. Ciò non impedì a Bargheer di dedicare a Maria e al suo bar-taverna un quadro in cui, oltre naturalmente alla locandiera, compaiono proprio Auden, seduto al “suo” tavolino col capo poggiato sulla mano destra, insieme al compagno Chester Kallman, in piedi, alle spalle di Maria.

Un quadro che racconta lo “spirito del tempo, al pari della parole con cui Auden termina la sua poesia di commiato da Forio: “sebbene non sempre si possa ricordare esattamente perché si è stati felici, non ci si dimentica d’esserlo stati“.

Magia dell’isola d’Ischia!!!