“Non vorrete mica andare là! Nessuno va a Ischia. Niente alberghi, niente stranieri, niente divertimenti. Invece, qui a Capri, per esempio“.
È il disappunto di un portiere d’albergo troppo zelante la molla che persuade definitivamente i coniugi Geoffrey e Kit Bret Harte a lasciare Capri e a proseguire la propria luna di miele a Ischia. Una luna di miele lunga un anno, passata a “vagabondare tra le vigne (…) oziare sulle grandi spiagge dorate (…) andare a zonzo attraverso le strette e affollate stradine del vecchio borgo o correre a bordo di una di quelle traballanti, allegre carrozze“.
Marito e moglie tennero un diario minuzioso dei 365 giorni trascorsi sull’isola più grande del Golfo di Napoli nel 1930. Diario che qualche anno dopo pensarono bene di trasformare in libro con nessuna altra ambizione se non quella di invogliare il lettore a seguire le loro orme, come chiarisce Geoffrey Bret Harte in chiusura di presentazione: “Se, dopo averlo letto – scrive – scoprite che siete tentati di seguire le nostre orme, soprattutto se andate a Ischia e trovate lì parte della felicità che è stata la nostra, noi saremo ripagati per averlo scritto e voi per averlo letto“.
Già, ma cos’è che aveva spinto davvero i due inglesi a scegliere Ischia, anziché Capri? Più di tutto, il mistero di come Ischia fosse riuscita fin lì a sfuggire il contatto con la “devastante” civiltà moderna. Un appunto molto importante dal punto di vista storico che, da un lato, rimanda all’eterno confronto con Capri che a quel tempo invece già aveva fama di matura località turistica; dall’altro, però, obbliga ad approfondire il ‘900 dell’isola d’Ischia.
Il XX secolo, infatti, a Ischia più che altrove ha avuto due facce: quella descritta dal libraio ravennate Giuseppe Orioli che nello stesso anno in cui i coniugi Bret Harte sono a Ischia si chiedeva, con rammarico, cosa sarebbe stato del nugolo di ragazzini che lo seguiva per le strade assolate di Testaccio; e l’altra faccia – invece – del boom turistico cominciato negli anni ’50 con l’editore milanese Angelo Rizzoli. Un boom addirittura superiore a quello che viveva la penisola, accompagnato da un forte sentimento di riscatto dopo anni di miseria ed emigrazione.
Però, nonostante la povertà, i coniugi Bret Harte restarono profondamente colpiti dalla dignità degli ischitani: “la cosa più notevole per noi sull’isola – scrivono – era l’assenza di mendicanti. Non ne abbiamo incontrato nemmeno uno, né giovane, né vecchio, anche se la popolazione era disperatamente povera. […] Soprattutto eravamo felici che questo popolo semplice e generoso non avesse ancora imparato, oltre ad altri spiacevoli trucchetti, che era più vantaggioso chiedere la carità piuttosto che trascorrere una giornata di onesto lavoro“.
Ed effettivamente, anche se a Ischia nel frattempo tutto è cambiato, il carattere dei suoi abitanti resta quello laborioso e dignitoso descritto dai coniugi Bret Harte. Continua, proprio come allora, anche la difficoltà nel pubblicizzare a dovere le proprie eccellenze. All’inizio deI libro i due coniugi inglesi osservano stupefatti che “nonostante il vino fosse il prodotto principale dell’isola e Napoli il principale mercato, Ischia non era molto conosciuta, per cui quando il vino arrivava a Napoli veniva imbottigliato ed etichettato come Capri o Vesuvio“. Trasferendo a oggi i termini del discorso potremmo dire che nonostante Ischia da sola produca più di 1/3 del Prodotto Interno Lordo turistico della Campania, Capri, Sorrento e altre località della regione all’estero sono più conosciute dell'”Isola Verde“.
Per altro verso, il relativo deficit di notorietà può rivelarsi anche una risorsa, perchè vuol dire che a tutt’oggi, esattamente come 80 anni fa, la “scoperta” è il sentimento prevalente di chi viene per la prima volta in vacanza a Ischia. Stato d’animo che sul posto diventa meraviglia e quindi nostalgia al momento di andarsene. Nostalgia che inevitabilmente obbliga a tornare o, perchè no, se ne siete capaci e ne avete voglia, a scriverne un racconto come Geoffrey e Kit Bret Harte nel 1930.
Ischia Vi aspetta!!!